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  • Rachele Bindi

Scrivere un libro sulla Libroterapia


Negli ultimi mesi ho scritto un saggio sulla Libroterapia.

Da un paio di anni pensavo che mi sarebbe piaciuto provare ad imbarcarmi in un progetto del genere, ma avevo sempre rimandato per quella forma di vergogna che prova chi, come me, pensa che creare un libro da consegnare al collettivo debba essere una azione ragionata e una grande presa di responsabilità.

Un caro amico, che sta curando una nuova collana di saggi di carattere psicoanalitico, mi ha proposto di buttare giù un po’ di materiale, così ho provato.

Mi sono resa conto presto che il lavoro di scrittura stava comportando due movimenti all’interno della mia psiche: una revisione di tutte le mie conoscenze accumulate fino a quel momento e una rielaborazione globale delle esperienze fatte con i gruppi in questi anni.

Per soddisfare l’esigenza di revisione mi sono trovata a leggere articoli datati quasi cento anni fa, a spulciare bibliografie in lingue che conosco bene ed anche in lingue che da anni non usavo, ad ordinare libri dall’altra parte del mondo e ad aspettare i frutti delle mie ricerche con eccitazione quasi infantile. Ho accumulato raccoglitori interi di note, appunti, citazioni, i libri sulla mia scrivania erano pieni di segnalibri e post it.

Ad un certo punto mi sono dovuta fermare, dicendomi che stavo per scivolare nel “troppo”, che in fondo era il momento di mettermi a scrivere, che non stavo compilando una enciclopedia della biblioterapia nel mondo.

Davanti alla pagina bianca, ho dovuto fare i conti con il dare una forma a quel discorso che ormai avevo formulato nella mia psiche. Come organizzare gli argomenti che volevo toccare? Come far in modo che le mie parole fossero adatte ad essere lette e diventare parole per gli altri? Cosa dire e cosa invece tralasciare? Come usare tutte quelle citazioni che continuavano ad aprire altri discorsi, altri mondi?

Dopo parecchi tentativi, ho scritto un indice. Seguendolo, ho iniziato a vedere nascere i paragrafi, anche se non ho potuto arginare mai la voglia di andare a verificare un nuovo spunto che emergeva da un testo che stavo mettendo in nota o da un nome che non mi ricordavo di aver citato. Quando i paragrafi hanno trovato una prima stesura, ho rivisto l’indice, perchè l’ordine in cui erano stati creati non poteva essere quello in cui si sarebbero presentati al lettore.

Ho aggiunto le note ed ho riletto.

Ed è tornato l’imbarazzo, sono arrivati i dubbi. Potrà interessare a qualcuno? Sarà leggibile? Vale la pena di essere pubblicato così come è o ci sono parti da rivedere?

Ho consegnato la bozza al mio primo lettore, per avere un primo parere ed un aiuto nella revisione formale. Mentre altri occhi leggevano quello che finora era stato solo mio, mi sono resa conto che quella sensazione mi piaceva, che mi sarebbe piaciuto veder leggere il mio libro. E che, forse, avevo davvero delle cose da dire.

Ho inviato il materiale all’editore: in attesa di sapere cosa succederà adesso, sorrido ripensando alle parole di J.L.Borges “Tutti gli autori che ho letto, tutto il passato delle lettere e della lingua, tutti hanno influito su di me. Io direi che su uno scrittore influiscono non solo tutti i libri che ha letto ma anche quelli che non ha letto, perfino quelli che gli piacciono meno; in altre parole, la vita influisce in ogni momento. Un uomo, specialmente uno scrittore, è esposto ad ogni tipo di influenza. Cos’è uno scrittore, infatti, se non, prima di tutto, un essere particolarmente sensibile ai fatti, alle circostanze della vita?”[1].

[1] Paoli, R. “Tre saggi su Borges”, Bulzoni, Roma, 1992

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